Carrozzeria Michelotti: arte “casalinga”

Michelotti: la storia per la rubrica dei “Carrozzieri” – Riproduzione riservata

Giovanni Michelotti, ennesimo carrozziere torinese, ha già a sedici anni una naturale predisposi­zione per il disegno. Questa “qualità” lo fa segnalare subito ai responsabili del­la carrozzeria Farina (non anco­ra Pininfarina), gestita da Gio­vanni, fratello del più famoso “Pinin“, presso la quale viene as­sunto, nel 1937, come apprendi­sta.

Anche lui, come tanti altri, è figlio d’arte. Ed in questo caso l’esempio paterno era destinato a rimanere indelebile nella memo­ria, anche a distanza di molto tempo. Il padre di Giovanni, in­fatti, aveva collaborato fattiva­mente alla costruzione di alcuni importanti componenti della fa­mosissima “Itala“. La quale partecipò al Raid Pechino – Parigi. Roba da pionieri. E, raccogliendone l’ere­dità, la stessa passione “pionieri­stica” colpì il giovane Giovanni. Quest’ultimo, un anno dopo, era già primo disegnatore della Farina e aveva imparato tutte le fasi di lavora­zione della carrozzeria. Firmando anche i primi figurini e progetti.

Una carriera con clienti non “semplici” da accontentare

Ed alla fine della carriera la lista di quei progetti fu lunghissima. I clienti erano ricchi ma non facili da accontentare. Spesso egli do­veva, con estrema delicatezza, in­terpretare anche il loro gusto (a volte strano), proponendo, in tempi brevissimi, un figurino che configurasse al meglio i desideri del committente. Coordinando la fantasia della “fuoriserie” con la realtà dei telai effettivamente da rivestire. Un grande lavoro di pubbliche relazioni e di amabi­lità, con l’occhio rivolto alla ra­zionalità e alla tecnologia. Ma il suo impegno lo portò anche ad una carriera “fulminante”. Ac­contentare tutti gli esigenti anche nelle richieste più assidue, gli val­se la notorietà della Torino “bene”.

E poi anche fuori, in Ita­lia e all’estero, e gli consentì di creare un proprio “stile”. A se­guito di questo impegno perso­nale e, in qualche modo mutato dalla scelta dalle difficoltà che nel frattempo la guerra aveva frap­posto alla continuazione dell’at­tività della carrozzieri Farina, Mi­chelotti, dopo circa dieci anni di intensa collaborazione con la vecchia carrozzeria torinese, nel 1949 decise di tentare la strada del libero professionismo.

Quindi seguì l’illustre esempio di un al­tro progettista autonomo. Revelli di Beaumont. Creò uno studio indipendente (Studio tecnico car­rozzeria Gìovanni Michelotti che per molti anni (ben sei, per economizzare) fu ubicato nella stessa abitazione.

Michelotti e le collaborazioni di “lusso”

Lavorare in proprio e mettere in pratica liberamente le sue idee ed esprimere la sua personalità gli servì molto. I più importanti carrozzieri si di­sputarono da allora i suoi figurini. Allemano, Ghia, Boano, Ber­tone e Vignale commissionarono progetti e studi di carrozzerie, sfruttando la grande creatività di Michelotti. Ma vi fu una fitta col­laborazione anche con gli stilisti e i produttori “minori” di quegli anni. Balbo, Canta, Moretti, Sa­vio, Scioneri e Viotti. Solo per ricordare quelli più frequenti.

Il tratto di Giovanni Michelotti è un misto di eleganza e aggressività, di slan­cio e dinamismo, che piaceva molto e che non trascurava il “fa­rnily feeling” di ciascuna casa committente. Sono molte le auto importanti da lui disegnate. E del resto le belle automobili le aveva nel sangue, così come la mode­stia, per cui la sua firma difficil­mente compariva. Senza dubbio il periodo creativo più interessante dì Michelotti fu quello de­gli anni ’50 e 60. Nei quali, oltre a collaborare principalmente con Alfredo Vignale, disegnò quasi a getto continuo modelli per l’in­dustria inglese, con la quale i rap­porti erano stati sempre ottimi.

Per chiarire questa prolificità ba­sta ricordare che nel 1954 al Sa­lone di Torino ben 40 novità as­solute di serie e fuoriserie esposte da svariate case automobilistiche direttamente dalle carrozzerie portano “in incognito” la firma del progettista Michelotti. Un suc­cesso. Ma forse, più di tutti, il suo nome resta legato ai successi del­le splendide Ferrari realizzate, su suo disegno, da Vignale. Duran­te quegli anni, infatti, avviene l’incontro tra il giovane Miche­lotti e Alfredo Vignale, la cui abi­lità costruttiva crea ì presupposti di una collaborazione rivoluzio­naria. Le linee ardite, volute da Michelotti, si fondevano perfetta­mente con la meccanica partico­lare della Ferrari. La quale andava emergendo tecnicamente. Dalle officine di Vignale uscirono auto qua­si tutte disegnate da Michelotti. Le berlinette e le spider cominciarono a creare il mito della casa del cavallino rampante, vincen­do le più importanti corse stradali degli anni 50. Quali la Mille Mi­glia, lo Carrera Panamericana e il Giro dì Sicilia.

michelottiMichellotti: 140 vetture progettate

Ben 140 vetture fu­rono progettate e realizzate dal binomio che vede il nome di Mi­chelotti già affermato, tra i pochi capaci di esprimere un disegno originale, libero dalle mode del tempo. Allora fortemente influen­zate dalla produzione america­na. Si può dire che la linea delle più belle Ferrari nasce da qui. La 212 “Inter”, nuova configurazione della 250 “Europa’. Questa poi fu svilup­pata dalla Pininfarina con il suo basso e slanciato padiglione e il cofano allungato (che meravigliò gli stessi tecnici Ferrari per la sua bassezza, quasi non contenesse il possente 12 cilindri) e i parafan­ghi sporgenti e strettì. Alla cui sommità non troviamo, come sa­rebbe normale i fari. Questi erano infatti collocati  accanto alla imponente mascherina, bordata da una cro­matura vistosa. A sottolineare l’importanza.

La barchetta 250 M.M, la cui linea convenzionale è “sconvolta” dalla particolaris­simo sagoma del musetto, ”ta­gliato” subito dopo i fari, che pergiunta sono tra i primi esempi di fari carenati. A ben vedere, la li­nea diversa nasconde un proble­ma tecnico, ossia il raffredda­mento dei freni anteriori, risolto in questa maniera magistral­mente anche dal punto di vista stilistico. Ed ancora la splendida Ferrari 195 S dalla caratteristica mascherina tubolare, nella qua­le il profilo dei parafanghi si al­zava in una “cresta”, dando al co­fano uno stile aggressivo e po­tente. Tre delle Ferrari disegnate di Michelotti vinsero consecutivamente la Mille Miglia e una di esse, quella più preziosa, ex Bion­detti, è stata esposta l’anno scor­so dal Ferrari Club Palermo du­rante la 6a edizione del “Sicilia in Ferrari“.

La Ferrari Europa GT

Un’altra Ferrari importante fu l’Europa GT per la prin­cipessa Uliano di Rety (telaio 0359) caratterizzato da un parabrezza avvolgente molto diffuso durante la metà degli anni ’50. Un disegno molto interessante è stata la Ferrari 340 A.I. (Ameri­ca Tubolare). Il telaio era infatti della Gilco Autotelai di Milano, di cui furono costruiti tre esem­plari coupè e un Roadster per par­tecipare nel 1952 alla Carrera Pa­namericana. Uno dei coupè fu guidato da Luigi Chinetti, im­portatore americano della casa di Modena, e si classificò terzo die­tro le Mercedes di Kling e Lang. Dopo questo exploit, questa Fer­rari venne soprannominato “Mexico“. Era caratterizzata da strane feritoie verticali davanti alle portiere, che avevano il com­pito di guidare i filetti fluidi d’aria esattamente sui freni posteriori. L’aria poi usciva da altrettante fe­ritoie ricavate nella coda. Un esempio di decorazione funzio­nale. Altri clienti ferraristi ven­nero direttamente dall’America, tramite Luigi Chinetti.

Michelotti e gli americani

E’ signifi­cativo ricordare in episodio che dà la dimensione di quanto Michelotti fosse eclettico. Uno di questi americani commissionò al car­rozziere la sua Ferrari. E fin qui niente di strano. Lo stilista esegue, come al solito, il suo bozzetto e lo sottopone al suo cliente. Ritrae as­sieme alla macchina, per arric­chire il disegno, una bella mo­della elegantemente vestita. Quel distinto signore (proprietario di una catena di negozi di abbiglia.­mento) non fa altro che … di­menticarsi della Ferrari e copiare invece il tailleur per venderne il modello con notevole successo nei suoi negozi! Non sappiamo se, dopo il vestito, sia stata realizza­ta anche la Ferrari disegnata da Michelotti. Nello stesso tempo egli progettava vetture assoluta­mente da sogno, creazioni origi­nali e riuscite.

Nel 1951 una par­ticolarissima Fiat 8V, costruita per il dott. Luino, medico perso­nale di Vignale, denominata dantescamente “Demon Rouge”, e che oggi è perfettamente restau­rata, appartiene ad un collezioni­sta emiliano. Nel 1955 due Nar­di “Nastro Azzurro”, che furono le ultime vetture del piccolo co­struttore, famoso per i suoi vo­lanti, e che adottarono telai tu­bolari a tubi tondi di grande se­zione. La carrozzeria aveva una buono linea aeredinamica e finiture estetiche di pregio. Erano molto veloci (200 Km/h).

Il primo prototipo fu costruito per un clien­te americano, che la volle con in­terni in pelli di cinghiale, mentre la meccanica era quella della Lancia Aurelia con 140 CV. Dise­gnò ancora, per la Siata, una va­riazione sulla Fiat 8V, denomìinata 208 S, anch’essa ancora esi­stente. Nel 1956 realizzò anche il prototipo della Maserati 3500 GT Spider, poi prodotta da Vignale. Nei disegni per la produzione in serie, invece, la fantasia e l’estro sembravano mitigarsi, ma non per questo diventavano banali.

Il successo che accompagnò questi modelli ne è la più chiara con­ferma. Forse il motivo della pa­catezza di questi disegni sta nell’ambiente in cui venivano realizzati. E’ un caso strano, ma oggetti di culto, venerali dagli ap­passionati… e dalle loro famiglie. Vetture che sembrano nate su un “green” da golf o in un “pub”, mentre in realtà sono state progettate nel “tinello” di casa Michelotti. Proprio così.

La famosa “Daf”

La Triumph TR 4, la Spiffire MK 3, la Herald, la Vitesse, la Stag 3500, nascevano in un ambiente fami­liare, tra la simpatica invadenza dei suoi due bambini e gli odori della cucina dì casa! Quasi straor­dinario.

Nello stesso ambiente nacquero disegni di prototipi per la B.M.W. Come la Berlinetta 507 di 3200 C.C, mai realizzata in se­rie, e quelli per la piccola popo­lare 700 (l’unica vettura veramente utilitaria della casa tede­sca) costruita tra il ’59 e il ’65. Così come i disegni originali per la B.M.W.1500, 1800 e 2000, anche nella versione touring. Questi diede­ro vita alla più prolifera famiglia di berline della casa, ancora oggi in produzione (con le dovute va­rianti). Anche quella che, in Ita­lia, un pò ignominiosamente, ve­niva chiamata “la macchina de­gli handicappati” (in un periodo in cui questi problemi erano meno sentiti e capiti). Cioè la famosa Daf olandese, quella con la trasmissione automatica a cin­ghia, per intenderci.ù

Fu disegna­ta nel 1967 da Michelotti nei mo­delli 44, 55 e 66. Certo non bel­lissime. Ma è certo che il design dell’automobile deve molto a quest’uomo. E forse di più avreb­be potuto fare se avesse accettato le allettanti offerte propostegli, come ad esempio la direzione del Centro Stile Generai Motors. Ma, modestamente, decise di rimane­re a Torino a occuparsi delle sue ”invenzioni”.

Michelotti si mette in proprio

E finalmente, nel 1960, fa il grande passo dotan­dosi di una propria officina dove costruisce modelli, prototipi e pic­cole serie automobilistiche sia per le aziende con cui collabora sia per sè stesso. E nella quale pren­de forma la prima vettura.

Nei ca­pannoni di via Luranna realizza su telaio Fiat una 1500 con mo­tore Osca. Non meriterebbe alcuna citazione, se non esibisse per la prima volta una delle “trovate”. In questo caso il tetto a “pa­goda”, reso poi famoso dalla Mer­cedes. Dal suo atelier escono vet­ture uniche e speciali realizzate quasi per hobby, anche per un solo cliente.

Tra queste una stra­na Giulietta Conrero, un coupè su telaio dello specialista francese di corse in salita Budot, con motore di cilindrata ridotta a 950 CC e ca­ratterizzata dai fari carenati e da una inconsueta apertura del co­fano posteriore. Nel 1962 produ­ce una splendida ed elegantissi­ma fuoriserie Jaguar D type.

La “Italia” del 1959

Nello stesso anno, sull’onda dei suc­cessi commerciali, diviene lo sti­lista ufficiale, per oltre un de­cennio, della Triumph, per la quale disegna la “Dolomite“, la “Toledo” e realizza in soli 15 gior­ni, il prototipo, poi non prodotto, della TR 5, presentato al Salone di Ginevra del 1969. Forse la più bella Triumph da Michelotti è… napoletana.

La bellissima “Ita­lia’ del 1959, con meccanica del­la TR 3 (il cui nome non avrebbe potuto essere più azzeccato). Fu in­fatti commissionata da una con­cessionaria di Napoli, disegnata a Torino e assemblata dalla Du­cati a Bologna! Più italiana di così!

Era ancora una Fiat “Tigullio”, con un frontale quadrato e spigoloso e una coda filante. La bella MM 4700 GT, che altro non è se non la abbreviazione di Mi­chelotti-Maniero (un tecnico ve­neto) con un motore Ford Mu­stang.

Le altre creazioni “italiane”

La cui linea ricorda alcu­ni tratti della Ghibli e della Lam­borghini 400. Una Maserati 5000, la Matra Laser del 1971 ed altre Ferrari.

Una di queste è la GTB/4 N.A.R.T. (North American Racing Team)Le Mans“, progettata nel 1975 per Chìnetti in stile “corvet­te” e dipinta in bianco, rosso e az­zurro con i colori della bandiera americana. Un’altra auto molto “importante” gli viene commis­sionata da Jean Redelè, patron della Alpine.

Proprio lei, la regi­na dei rallies, la famosissima ber­linetta Renault Alpine “Tour de France” A 110. Prima la 1100 sia cabriolet che coupè, poi la 1300 e infine la gloriosa 1600 S, vinci­trice nel 1971 e nel 1973 del Cam­pionato Mondiale.

Nel 1974 rea­lizza una delle sue strane vetture, la “Mizar“, l’unica auto mai co­struita con tutte le quattro porte ad ala di gabbiano. Un prototipo su telaio Lancia Beta presentato al Salone di Ginevra. Giovanni Michelotti scompare nel 1980 a soli 58 anni, ma lascia il figlio Ed­gardo a proseguire la sua attività.

L’eredità al figlio

Quest’ultimo completa i progetti impostati dal padre: la Reliant “Scimitar” e ancora alcune Fer­rati per Chinetti. Una di queste ultime ha ancora una volta una storia singolare: nel 1983 il proprietario, uno sceic­co arabo, porto da Michelotti una 400 nuova di zecca. Immaginate quanto sarà stato penoso… de­molirla per realizzare la nuova carrozzeria, ma il lavoro (ovviamente) prosegui e nacque così lo “Meera S”, una splendida specia­le che meriterebbe di stare in qua­lunque museo. Sapete invece che fece il “saudi­ta”?

Dopo soli due (dico 2) mesi, si era stancato e aveva “regala­to” la vettura ad un suo (fortunato) amico, che gli aveva chie­sto solo di provarla. Edgardo Mi­chelotti continua ancora oggi degnamente l’opera di suo padre e tra le vetture più recenti di sua progettazione dobbiamo ricorda­re la Daihatsu “Charade” del 1987 e la “Pura” su Alfa Romeo, oltre a molti prodotti di industriali di design. Ha anche costituito il Re­gistro storico che cura la gestione e la conservazione dei oltre 1000 progetti firmati dalla matita di questo grande del design, effetti­vamente prodotte in almeno un esemplare, e del più di 10.000 (sì, proprio diecimila) progetti rima­sti sulla carta allo stadio di figu­rino. Anche così si tiene in vita una grande firmna dello ancora più grande tradizione della car­rozzeria italiana. 

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